53
Arrivarono la mattina dopo, con le bandiere spiegate e metà dell'equipaggio schierata ordinatamente sul ponte per osservare l'Ocean Venturer.
La spuma si dissolveva a poppa in onde leggere. Il battito ritmico dei motori rallentò e si spense quando il cacciatorpediniere canadese si fermò parallelamente all'avversario, duecento metri più a sud.
Il radiotelegrafista uscì e si mise accanto a Pitt e a Heidi Milligan, vicino al parapetto. «Dal comandante del cacciatorpediniere Huron, della reale Marina canadese. Chiede il permesso di salire a bordo.»
«Garbato e cortese», commentò Pitt. «Se non altro, ce lo chiede.»
«Che avrà in mente?» domandò Heidi.
«Credo di saperlo», rispose Pitt e, rivolgendosi al radiotelegrafista, comunicò: «Ricambio i saluti. Permesso accordato, a patto che ci onori accettando il nostro invito a colazione».
«Mi chiedo che tipo sarà», mormorò Heidi.
Pitt rise. «Chi altro se lo potrebbe chiedere, se non una donna? Probabilmente il tipo tirato a lucido, freddo, preciso e 'rappresentante ufficiale', dalla punta dei capelli a quella delle scarpe, capace di esprimersi soltanto in stile alfabeto Morse».
«Parli per pura malignità», sorrise lei.
«Aspetta e vedrai.» Le ricambiò il sorriso. «Scommetto che salirà lo scalandrone fischiettando l'inno canadese.»
Il capitano di corvetta Raymond Weeks non corrispondeva affatto alle supposizioni. Era un uomo grassoccio e cordiale, con un paio d'occhi celesti ridenti e una voce dal timbro piacevole, che gli usciva dalla profondità del corpo atticciato e dotato di una rispettabile pancetta. Con barba, baffoni e costume di prammatica, sarebbe stato il tipico Babbo Natale da sistemare all'ingresso dei grandi magazzini.
Salì agilmente fin sul ponte e si diresse senza esitare verso Pitt, il quale se ne stava un poco discosto dal gruppetto schierato per accoglierlo.
«Signor Pitt, sono il capitano di corvetta Ray Weeks. Mi sento davvero onorato d'incontrarla. Ho seguito con molto interesse la sua impresa per il recupero del Titanic. Mi potrei definire addirittura un suo fan.»
Pitt, disarmato e lusingato, non riuscì che a balbettare un «il piacere è tutto mio».
Heidi diede all'amico una gomitata. «Tirato a lucido, eh?»
«Come, scusi?» chiese Weeks.
«Niente, niente», fu pronta a replicare Heidi, allegramente. «Uno scherzo tra noi.»
Pitt si riprese e procedette alle presentazioni, benché a suo modo di vedere fossero una formalità sprecata. Era sin troppo ovvio che Weeks era informatissimo. Pareva sapesse tutto di tutti. Si dilungò a commentare un'impresa archeologica subacquea che Rudi Gunn aveva quasi dimenticato sebbene l'avesse a suo tempo diretta personalmente. E si mostrò particolarmente premuroso con Heidi.
«Se i miei colleghi ufficiali avessero il suo aspetto, comandante, credo che rimarrei in servizio attivo per tutta la vita.»
«Le adulazioni meritano un compenso», intervenne Pitt. «Forse riuscirò a convincere Heidi a farle da guida sulla nostra nave.»
«Ne sarei felicissimo.» Poi Weeks si fece serio. «Temo che lei non sarà forse altrettanto ospitale quando apprenderà il motivo della mia visita.»
«È venuto ad annunciarci che l'incontro di calcio è sospeso per colpa della pioggia politica.»
«La sua metafora è particolarmente appropriata.» Weeks si strinse nelle spalle. «Devo eseguire gli ordini. Mi rincresce.»
«Quanto tempo ci lascia per ritirare uomini ed equipaggiamento?»
«Di quanto tempo ha bisogno?»
«Di ventiquattr'ore.»
Weeks non era uno sprovveduto. Sapeva quanto bastava in fatto di recuperi per capire che Pitt tentava d'imbrogliarlo. «Gliene posso concedere otto.»
«Ce ne occorrono almeno dodici per tirare su la camera pressurizzata.»
«Lei sarebbe un abile mercante in un bazar turco, signor Pitt.» Sulle labbra del comandante ricomparve il sorriso. «In dieci ore ce la potrebbe fare benissimo.»
«Purché incominciate il conteggio dopo colazione.»
Weeks alzò le mani in segno di resa. «Dio mio, lei deve averla sempre vinta, vero? Sta bene, facciamo dopo colazione.»
Accompagnato da due ufficiali, Weeks seguì Heidi giù per una scala, fino alla piattaforma di lavoro nel pozzo centrale. Pitt e Gunn si diressero a passo lento verso la cabina di comando.
«Perché diavolo un'accoglienza tanto riguardosa a un tizio che è venuto per cacciarci fuori a calci?» brontolò Gunn, seccatissimo.
«Perché così mi sono comperato a buon prezzo dieci ore», spiegò Pitt, a bassa voce. «E perché sfrutterò quanti più minuti potrò affinché i nostri continuino a lavorare là sotto, intorno al relitto.»
Gunn si fermò per guardarlo dritto in faccia. «Stai dicendo che non intendi interrompere l'operazione?»
«Certo! È proprio quello che intendo.»
«Tu sei matto.» Gunn scrollò la testa, sbalordito. «Ci occorrerebbero come minimo altri due giorni per arrivare alla cabina di Shields. Non hai la più remota possibilità di riuscire a tirarla tanto in lungo.»
Pitt gli rispose con un sorriso di traverso. «Può darsi. Ma, perdio, ti do la mia parola che sono deciso a tentare.»
Moon, sprofondato nel sonno, si accorse che qualcuno lo stava scuotendo. Era rimasto ininterrottamente in ufficio, ventiquattr'ore su ventiquattro, sin dal giorno in cui l'Ocean Venturer si era ancorato sopra l'Empress of Ireland. Aveva dimenticato che cosa fossero le normali ore di sonno e cercava di rifarsi schiacciando brevi pisolini. Quando ebbe riaperto gli occhi, a fatica, si trovò a fissarli sul volto corrucciato dell'uomo che dirigeva il dipartimento comunicazioni della Casa Bianca.
Si rizzò a sedere con uno sbadiglio. «Qual è l'ultima?»
Il funzionario gli allungò un foglio di carta. «Lo legga e pianga.»
Moon lesse molto lentamente quanto vi stava scritto. «Dov'è il presidente?»
«Sta parlando con un gruppo di sindacalisti messicani nel giardino delle rose.»
Moon s'infilò le scarpe e si precipitò di corsa in corridoio, mettendosi la giacca e aggiustandosi il nodo della cravatta strada facendo. Il presidente aveva appena finito di stringere una quantità di mani e stava rientrando nello studio ovale quando Moon lo raggiunse.
«Altre cattive notizie?» chiese.
Moon annuì e gli porse il messaggio. «Le più recenti trasmesseci da Pitt.»
«Me lo legga mentre andiamo nel mio studio.»
«Dice: 'Ricevuto ordine dalla Marina canadese di lasciare il San Lorenzo. Ottenuto rinvio di grazia di dieci ore per fare le valigie. Sottoposti sorveglianza da cacciatorpediniere alla fonda...'» «È tutto?»
«Nossignore, c'è dell'altro...»
«Coraggio, allora, sentiamo.»
Il giovane riprese a leggere. «'Intendo trascurare ingiunzione. Recupero continua. Ci prepariamo respingere abbordaggio. Firmato Pitt.'» Il presidente si fermò. «Come?»
«Che cosa, signore?»
«L'ultima parte. Me la rilegga.»
«'Ci prepariamo respingere abbordaggio.'» Il presidente scosse la testa, sbalordito. «Buon Dio, sono cent'anni che l'ordine di respingere un abbordaggio non è più stato impartito.»
«Per poco che io sappia giudicare le persone, sono sicuro che Pitt farà quel che dice.»
Il presidente appariva pensieroso. «Britannici e canadesi, quindi, ci hanno sbattuto la porta sul muso.»
«Ho paura che questa sia la loro ultima parola», disse Moon. «Devo mettermi in contatto con Pitt e ordinargli d'interrompere il tentativo di recupero? Qualsiasi altra azione potrebbe provocare una reazione militare.»
«È innegabile che stiamo camminando sul filo del rasoio, però chi mostra d'avere fegato merita una ricompensa.»
Moon represse un subitaneo timore. «Non starà suggerendo di lanciare a Pitt un salvagente?»
«Sì», confermò il presidente. «È proprio quanto sto proponendo. Era ora che mostrassimo anche noi di avere fegato.»